«(…) Secondo il Centro Italiano Studi Ufologici cisu.org, che si occupa di catalogare i fenomeni aerei insoliti nei nostri cieli, a partire dall’anno scorso le segnalazioni sono triplicate: stabili intorno alle 450 l’anno dal 2000, ma, nel 2012 sono salite a 1.289, soprattutto in Lombardia, Piemonte ed Emilia. Alieni in arrivo? Improbabile:
“Almeno 9 segnalazioni su 10”, spiega Paolo Toselli, cofondatore del Cisu, “sono mongolfiere, luci, aerei”».
Irene Soave, Vanity Fair
Dal 1960 il programma scientifico SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) scandaglia lo spazio siderale nella speranza di intercettare un segnale, un qualsiasi segnale che ci confermi l’esistenza di una civiltà extraterrestre. Finora però, ogni sforzo si è tradotto in uno strano e un po’ inquietante silenzio. Significa che dobbiamo arrenderci all’idea che siamo davvero soli nell’universo e che non esistono altre forme di vita?
Non necessariamente, secondo Paul Davies.
Il silenzio che ci circonda forse vuol dire che stiamo cercando la cosa sbagliata nel modo sbagliato e che un buon inizio per affrontare la probabilità dell’esistenza di ET è affrontare l’improbabilità nell’universo della presenza umana.
Uno strano silenzio è un libro provocatorio e coraggioso, dove il rigore della scienza non ruba la scena, ma anzi, alimenta la riflessione sociale e filosofica di uno dei temi capace di toccare le corde più profonde dell’inquietudine umana.
Dimentichiamo gli omini verdi, i nani grigi, i dischi volanti con piccoli oblò, i cerchi nel grano, le palle luminose e i terrificanti rapimenti notturni: entrare in SETI significa andare oltre gli UFO, oltre gli stereotipi delle leggende umane, oltre il folklore, le favole e la fantascienza.
Per comprendere a pieno il significato dello strano silenzio in cui siamo immersi dobbiamo imbarcarci in un viaggio nel vero ignoto.
Paul Davies
Fortemente consigliato sia agli appassionati di fantascienza sia a quelli di astronomia.
“Publisher’s Weekly”
Paul Davies affronta una delle più importanti questioni che riguardano l’uomo e lo fa con stile e rigore.
Michio Kaku
❖ C’è qualcuno là fuori?
«L’assenza dell’evidenza non è la stessa cosa dell’evidenza dell’assenza».
Donald Rumsfeld (sulle armi di distruzioni di massa)
❖ Cosa succederebbe se ET telefonasse domani?
Una fredda e nebbiosa mattina dell’aprile 1960 un giovane astronomo di nome Frank Drake prese
silenziosamente il controllo del radiotelescopio di 26 metri dello US National Radio Astronomy Observatory di Green Bank, West Virginia.
Poche persone compresero che tale momento sarebbe stato un punto di svolta per la scienza. Con fare lento e metodico, Drake puntò il gigantesco strumento verso una stella di tipo solare nota come
Tau Ceti lontana 11 anni luce, si sintonizzò su 1420 MHz e si sedette ad aspettare. La sua fervente speranza era che esseri alieni su un pianeta in orbita attorno a Tau Ceti potessero star
inviando segnali radio nella nostra direzione e che, questo potente radiotelescopio fosse in grado di intercettarli.
Drake fissò il ricevitore a getto d’inchiostro che registrava ciò che l’antenna stava intercettando, con spasmi intermittenti accompagnati dal sibilo dell’alimentazione audio.
Dopo circa mezz’ora giunse alla conclusione che non ci fosse nulla di significativo che provenisse da Tau Ceti: soltanto le solite scariche elettrostatiche e il rumore di fondo naturale dello spazio. Fece un sospiro profondo e cambiò attentamente l’orientamento della grossa antenna a favore di una seconda stella, Epsilon Eridani.
All’improvviso, dall’altoparlante esplosero una serie di botti rumorosi e l’ago della stampante cominciò a muoversi freneticamente avanti e indietro.
Drake per poco non cadde dalla sedia: era chiaro che l’antenna aveva intercettato un forte segnale artificiale. L’astronomo era stato colto di sorpresa e per lungo tempo rimase immobile lì dov’era. Poi, ripreso possesso delle proprie facoltà, spostò il telescopio leggermente fuori dal target e il segnale si attenuò.
Ma quando rimise l’antenna nella posizione iniziale, il segnale ricomparve!
Poteva trattarsi davvero di una fugace trasmissione di ET?
Drake subito intuì che captare un segnale di una civiltà aliena al secondo tentativo sarebbe stato troppo bello per essere vero. La spiegazione doveva essere in una sorgente umana e, come previsto, in seguito venne fuori che il segnale era stato prodotto da una postazione militare radar segreta. Con questi inizi modesti (che presero il nome di progetto Ozma, dal mitico Regno di Oz) Frank Drake fu il pioniere del più ambizioso e potenzialmente significativo progetto di ricerca della storia.
Noto come SETI, Search for Extra-terrestrial Intelligence (ricerca di intelligenza extraterrestre), questo progetto cerca di rispondere a una delle più grandi questioni esistenziali: “siamo soli nell’universo?”.
La maggior parte del programma SETI si basa sul proposito iniziale di Drake di perlustrare il cielo con i radiotelescopi alla ricerca di un indizio o di un messaggio proveniente dalle stelle.
Un tentativo che con tutta evidenza punta in alto.
Le conseguenze di un successo sarebbero davvero incredibili, con un impatto maggiore rispetto alle scoperte di quelle di Copernico, Darwin e Einstein tutte insieme.
Ma è la ricerca di un ago in un pagliaio, senza nessuna garanzia che l’ago esista davvero.
A parte uno o due incidenti intriganti (di cui parlerò oltre), tutti gli sforzi sono stati accolti sinora da uno strano silenzio.
Gli astronomi del SETI dicono che il silenzio non è una sorpresa: semplicemente, non hanno ancora guardato abbastanza e per un tempo abbastanza lungo.
Ad oggi, i ricercatori hanno osservato solo poche migliaia di stelle in un raggio di circa 100 anni luce. Paragoniamo questi dati alla scala della nostra galassia nel suo intero: 400 miliardi di stelle sparse in uno spazio di più di 100.000 anni luce; e ci sono miliardi di altre galassie… Ma le potenzialità di ricerca aumentano ogni giorno che passa, seguendo una legge analoga a quella di Moore per i computer: gli apparecchi raddoppiano la loro potenza ogni uno o due anni e altrettanto impetuosamente crescono l’efficienza degli strumenti e la velocità dell’elaborazione dei dati.
Oggi tutto quest’ambito è destinato a migliorare sensibilmente con la costruzione di 350 radiotelescopi collegati tra loro ad Hat Creek, nella California del Nord.
L’Allen Telescope Array, dal nome del benefattore Paul Allen, metterà gli scienziati alla ricerca di segnali alieni nella condizione di poter sorvegliare una porzione della galassia molto più
ampia. La struttura è gestita dall’università della California a Berkeley e dal SETI Institute, dove lavora oggi Frank Drake. L’istituto resta ottimista nei confronti delle prospettive di
successo e in frigo (c'è grande ottimismo) c’è sempre una bottiglia di champagne in previsione di un rilevamento che metta fine ai dubbi.
É facile immaginarsi la scena che si verificherebbe se l’atteggiamento ottimista fosse corretto e se si trovasse presto qualcosa. Un astronomo è storicamente seduto alla centrale di controllo
dello strumento con i piedi su una scrivania invasa da fogli, con un libro di matematica e aria assente.
Per lui e per dozzine di altri scienziati coinvolti nel progetto SETI, questa è la routine.
Ma oggi è diverso. All’improvviso l’astronomo annoiato è distolto dalle sue fantasticherie dal suono stridulo e distinto di un allarme: il suono è generato dall’algoritmo informatico ideato per individuare segnali radio “strani” e separarli dal mare magnum proveniente dallo spazio lontano che si riceve di continuo. Sulle prime, l’astronomo pensa che sia soltanto uno dei molti falsi allarmi, di solito, una trasmissione umana che filtra attraverso la rete progettata per schermare segnali artificiali ovvi provenienti da telefoni cellulari, radar e satelliti.
L’astronomo, rispettando un protocollo reso nobile dal tempo, segue alcune semplici istruzioni e muove il telescopio un po’ fuori centro rispetto alla stella target.
Il segnale immediatamente muore. Allora l’astronomo rimette il telescopio nella posizione iniziale e il segnale è ancora li. Dopo aver studiato con attenzione la forma d’onda e aver determinato
che la sorgente resta ferma in un punto fisso relativamente alle stelle, l’astronomo telefona subito a un altro osservatorio coinvolto nel progetto e allo stesso tempo spedisce via email le
coordinate del segnale misterioso.
A più di 8000 Km di distanza un’altra astronoma è costretta a saltare giù dal letto per investigare questo strano fenomeno. Un po’ assonnata si dirige verso il centro di controllo e si versa un
caffè; cercando di farsi passare il sonno controlla l’email e inserisce le coordinate. Nell’arco di un minuto il secondo telescopio si è agganciato al target e subito raccoglie lo stesso segnale,
forte e chiaro.
Il suo battito comincia ad accelerare furiosamente: è concepibile che questa volta l’allarme sia reale? Dopo decenni di ricerche senza nessun risultato, potrebbe essere lei la prima persona sulla faccia della Terra a confermare che una civiltà aliena esiste davvero e sta trasmettendo dei segnali radio?
L’astronoma sa bene che saranno necessari molti altri controlli prima di poter giungere a questa conclusione, ma i 2 scienziati, ora impegnati in una concitata conversazione telefonica a cavallo tra 2 continenti, eliminano sistematicamente l’ipotesi legata ad un possibile intervento umano, una dopo l'altra, finché, con il 90% di probabilità, giungono alla conclusione che il segnale è senza dubbio artificiale, non umano e arriva da molto, molto lontano nello spazio. Mentre i radiotelescopi continuano a tracciare in sincrono e a registrare ogni più piccolo dettaglio, i 2 astronomi, un po’ frastornati, si comportano come se si trattasse di un sogno: basiti, euforici e permeati di timore riverenziale.
Fino ad ora la storia (che, lo ammetto, è stata un po’ romanzata) non richiede enormi sforzi di immaginazione: lo scenario di base è stato delineato molto bene dal film Contact, in cui Jodie Foster interpreta il ruolo dell’astronoma fortunata e ammirata da tutti.
Ciò che è molto, molto meno chiaro è la fase immediatamente successiva:
cosa dovrebbe seguire al rilevamento positivo di un segnale radio di provenienza aliena?
La maggior parte degli scienziati concorda che una tale scoperta sarebbe esplosiva e porterebbe a una moltitudine di cambiamenti. Anche la semplice contemplazione di un segnale che arrivi dal nulla all’improvviso suscita molte domande:
E in cima a tali cose imponderabili c’è un’annosa questione:
dovremmo rispondere al segnale spedendo anche noi un messaggio agli alieni?
Questo comporterebbe qualche conseguenza spaventosa, come l’invasione di una flotta di navicelle spaziali armate fino ai denti?
Oppure sarebbe una promessa di speranza per la liberazione di una specie quasi distrutta?
Per nessuna di queste domande esistono risposte condivise all’unanimità.
La storia di Contact era fedele alla scienza fino al momento in cui il segnale veniva ricevuto, per poi entrare nell’indistinto regno dei viaggi spaziali attraverso tunnel spaziotemporali, ponti di Einstein-Rosen e altri argomenti d’effetto.
Questa era fantascienza, nata dalla fertile immaginazione dell’astronomo della Cornell University Carl Sagan, e autore del libro su cui il film era basato.
Nel mondo reale non è per nulla chiaro cosa succederebbe dopo la scoperta che non siamo soli nell’universo. Nel 2001 l’Accademia internazionale di astronautica ha creato un comitato che si occupa delle questioni relative al “cosa fare dopo”; noto come unità operativa di post rilevamento di SETI (SETI Post Detection Task Group), che si occupa di preparare il terreno nel caso in cui SETI all’improvviso abbia successo.
L’idea alla base è che, una volta che un segnale proveniente da una sorgente aliena fosse dichiarato valido, le cose si muoverebbero troppo in fretta perché la comunità scientifica possa prendere delle decisioni ben ponderate. Al momento, io sono il presidente di questo comitato e questa posizione un po’ speciale mi ha portato a pensare molto alla ricerca di intelligenze extraterrestri in generale e al post rilevamento in particolare.
❖ É possibile che SETI si sia fossilizzato?
In un modo o nell’altro SETI ha fatto parte della maggior parte della mia vita lavorativa e nutro un’ammirazione sconfinata per gli astronomi che fanno funzionare i radiotelescopi e analizzano i
dati, così come per lo staff tecnico che progetta e costruisce le apparecchiature.
Spero che questo silenzio un po’ strano sia proprio dovuto al fatto che finora la ricerca è stata limitata e sono un convinto sostenitore dell’Allen Telescope Array.
Allo stesso tempo, tuttavia, ritengo che (per ragioni sulle quali ritornerò più avanti) ci sia soltanto una minima speranza di ricevere oggi un messaggio proveniente dalle stelle; di conseguenza, parallelamente al “SETI tradizionale” à la Frank Drake, abbiamo bisogno di mettere in piedi un programma di ricerca molto più vasto, che tenti di individuare segni generali di intelligenza, ovunque essi possano nascondersi nell’universo.
E questo richiede le risorse di tutta la scienza, non soltanto della radioastronomia.
Ad ogni modo c’è un altro fattore che va preso in considerazione: concentrandosi su uno scenario ben specifico, come una civiltà aliena che invia in direzione della Terra dei messaggi radio cosiddetti a banda stretta (alta frequenza), la ricerca tradizionale si è fossilizzata in una sorta di circolo vizioso concettuale.
Cinquant’anni di silenzio sono un ottimo spunto per allargare i nostri orizzonti di pensiero: è di importanza fondamentale liberare il SETI dai legami con l’antropocentrismo che l’hanno imprigionato sin dall’inizio. Per aiutare a stimolare questo processo ho organizzato, nel 2008, un seminario straordinario di SETI presso il Beyond Center for Fundamental Concepts in Science (centro “oltre” per i concetti scientifici fondamentali) dell’Arizona State University, con l’obiettivo di incentivare un vivace scambio di idee tra i veri e propri ricercatori di SETI e una manciata di pensatori fuori dal coro: filosofi, scrittori di fantascienza e cosmologi.
Il risultato finale è stato un programma per un “nuovo SETI”, con tanto di alcune idee straordinarie che descriverò nei prossimi capitoli.
Com’è possibile che qualcosa di così coraggioso e visionario come il progetto SETI sia diventato conservatore? Uno dei motivi più importanti è di certo insito nella tendenza umana a estrapolare
la realtà dalla propria esperienza.
Le fondamenta di SETI stanno, dopo tutto, nell’ipotesi che la nostra civiltà sia per certi versi tipica e che là fuori ci siano altre terre con esseri senzienti in carne e ossa, non troppo diversi da noi e ansiosi di stabilire un contatto. Ciò detto, è ragionevole prendere la natura e la società umana come modello per immaginare una civiltà aliena; in fondo, non abbiamo molto altro su cui basarci. Nei primi giorni di SETI, quando venne pianificata la strategia di base, c’erano molte domande sulla falsariga di “cosa faremmo noi in questa circostanza?”
Il risultato, inevitabilmente è stato un errore di base che ha portato a un atteggiamento antropocentrico.
Ecco un esempio tipico: SETI scaturì dall’aver capito che i radiotelescopi hanno il potere di inviare segnali nello spazio; di conseguenza, è possibile che ci siano messaggi alieni che arrivano
nella nostra direzione. L’immagine resa famosa da Carl Sagan è quella di una civiltà aliena che manda messaggi sulla Terra sotto forma di segnali radio a banda stretta, ma ben presto si
aggiunsero dettagli più specifici: il messaggio sarebbe stato racchiuso in un’onda e trasmesso da un’antenna a frequenza fissa e con una potenza sufficiente a farlo emergere rispetto al rumore
radio di fondo. Questo è il modo in cui si comportano le stazioni radio terrestri; è facile rilevare segnali a banda stretta una volta che l’antenna ricevente sia stata sintonizzata sulla
frequenza giusta (o, nel caso di radiotelescopi, una volta che siano stati orientati nella direzione giusta). Ci sono molti altri modi di codificare e trasmettere messaggi radio che richiedono
procedure di ricezione molto più sofisticate, ma gli astronomi di SETI presumono che una civiltà aliena ansiosa di attirare la nostra attenzione userebbe il metodo più semplice, rilevabile anche
da una tecnologia radio alle prime armi.
Negli anni Sessanta del secolo scorso, una delle più grandi preoccupazioni dei ricercatori di SETI era basata su quale frequenza sarebbe stata scelta da ET; ci sono infatti miliardi di frequenze
possibili. Non tutte le frequenze penetrano nell’atmosfera terrestre in modo efficiente, pertanto, la speranza era, che gli alieni adattassero i loro segnali a pianeti simili alla Terra usando
una frequenza che non venisse attenuata mentre l’onda viaggia nello spazio. Anche questa ipotesi, tuttavia, lasciava spazio a un numero enorme di potenziali canali radio. Sarebbe piuttosto
ironico se puntassimo un radiotelescopio verso la stella giusta ma lo sintonizzassimo sulla frequenza sbagliata, perdendo così l’occasione di ricevere il messaggio. I ricercatori pensavano che
gli alieni avrebbero anticipato il nostro problema e scelto una frequenza “naturale”, ossia, una frequenza nota a tutti i radioastronomi.
Una stima piuttosto diffusa era quella di 1420 MHz, la frequenza di emissione del gas idrogeno freddo. I radioastronomi sono abituati a convivere con questa “musica dell’idrogeno” e per certi versi, sarebbe una buona scelta.
Ad ogni modo, questa è la frequenza che Frank Drake scelse per il progetto Ozma nel 1960.
Altri astronomi suggerirono di moltiplicare la frequenza dell’idrogeno per π, numero che generalmente gli uomini considerano un segno di intelligenza dato che, comparendo sia in geometria sia nelle equazioni della fisica fondamentale, sarebbe familiare anche a scienziati alieni. Ci sono altri numeri speciali, però, come il numero e o la radice quadrata di 2.
Un mistero aggiuntivo era, se gli alieni avrebbero inserito una correzione per compensare il moto del loro e/o del nostro pianeta. Presto la lista delle possibili frequenze “naturali” divenne tristemente lunga. Questa battaglia delle bande d’onda, tuttavia, si è conclusa nel momento in cui si è resa disponibile una tecnologia tale per cui i radioastronomi possono monitorare milioni e addirittura miliardi di canali radio nello stesso momento (solitamente di ampiezza variabile tra 1 e 10 Hz). Ne consegue, che oggigiorno non sono molti i ricercatori di SETI che si preoccupano di dover indovinare la scelta delle frequenze operata dagli alieni.
Il punto che voglio sottolineare è che piccoli progressi nella tecnologia umana ci hanno portato nel giro di pochi decenni a cambiare il modo in cui pensiamo alle frequenze aliene più probabili. Questo esempio ci fornisce una lezione piuttosto importante: è saggio vedere la situazione con gli occhi di una civiltà che voglia comunicare con noi ipotizzando che sia una civiltà piuttosto vecchia (almeno di un milione di anni, o forse 100 milioni, o anche di più). Anche se è possibile che gli alieni scelgano come mezzo proprio le onde radio (forse a nostro beneficio) non possiamo aspettarci che siano in grado di distinguere fra la tecnologia che avevamo negli anni Cinquanta e quella degli anni Ottanta:
cosa sono pochi decenni rispetto a milioni di anni?
Ecco un altro esempio: negli anni Sessanta del XX secolo si iniziò a considerare il laser come un valido mezzo di comunicazione alternativo e ben presto alcuni ricercatori di SETI cominciarono a
pensare che ET, essendo tanto più progredito, avrebbe preferito usare questo grazioso strumento anziché le vecchie onde radio.
Ecco come nacque il settore ottico di SETI, ancor oggi fiorente: gli astronomi cercano un segnale sotto forma di impulsi luminosi di brevissima durata e di alta intensità; questi, con le
apparecchiature adatte, possono essere distinti da quelli più intensi, ma molto più stabili, emanati dalla stella. La comunicazione laser è nata meno di un secolo dopo la comunicazione radio:
ancora una volta, mi chiedo cosa sia un secolo per una civiltà vecchia un milione di anni.
Un livello ancora maggiore di provincialismo ha luogo quando SETI viene influenzato dalla politica o addirittura dall’economia. Una delle cose di cui sappiamo meno è la longevità di una civiltà
in grado di comunicare: la sfida consiste nell’indovinare se ET trasmetterà segnali per secoli, millenni o ancora più a lungo.
Durante la Guerra Fredda, molti sostenitori di SETI sostennero che lo sviluppo di una tecnologia di comunicazione radio avanzata sarebbe stata accompagnata da sviluppi tecnologici simili, come le armi nucleari.
Dato che a quel tempo la nostra società era minacciata dal pericolo di estinzione proprio a causa delle armi nucleari, diventò di moda sostenere che una civiltà aliena simile alla nostra non sarebbe sopravvissuta a lungo: gli alieni avrebbero avuto la loro Guerra Fredda, che dopo pochi decenni sarebbe diventata una guerra calda e li avrebbe distrutti.
Quando la Guerra Fredda (terrestre) finì, le preoccupazioni politiche si spostarono in direzione dell’ambiente e i ragionamenti fatti nell’ambito della ricerca di intelligenza extraterrestre seguirono a ruota: ora, almeno per molti, la questione principale non è più la guerra nucleare, ma la sostenibilità.
Trasmettere potenti onde radio attraverso la galassia presuppone un’ingegneria molto sviluppata e richiede un sacco di energia. É sicuro che una civiltà aliena adeguerebbe la propria tecnologia in modo da minimizzare l’impatto ambientale?
Beh, è possibile. Questa linea di pensiero, tuttavia, sarebbe stata considerata con scetticismo nell’atmosfera politica degli anni Sessanta ed è parimenti possibile che venga considerata del tutto irrilevante tra un centinaio di anni, quando le preoccupazioni legate all’ambiente potrebbero essere sostituite da altre.
Non c’è alcun motivo per pensare che una super civiltà vecchia di un milione di anni abbia un problema legato alla sostenibilità; potrebbe avere altri problemi, magari che non siamo in grado di prevedere o addirittura che non saremmo in grado di comprendere nemmeno se ci venissero spiegati. SETI è per definizione un progetto a lungo termine, ed è assurdo basare le nostre strategie di ricerca esclusivamente sulla moda politica dell’ultimo minuto.
Cercare di indovinare le priorità politiche di una civiltà aliena è un’attività del tutto futile.
Altrettanto inutile è cercare di indovinare quale possa essere l’economia di una civiltà aliena.
Prendiamo per esempio il romanzo di H.G. Wells La guerra dei mondi, in cui i marziani costretti a vivere su un pianeta inadeguato, decidono di svignarsela sulla Terra.
Wells dipinge l’immagine raccapricciante di alieni avidi, tecnologicamente molto più progrediti degli uomini, che guardano il nostro pianeta con malignità, al di là degli abissi dello spazio, con
menti che stanno alle nostre come le nostre stanno a quelle degli animali bruti, intelletti vasti, freddi e spietati guardavano la Terra con invidia e preparavano, lentamente e con fermezza, i
loro piani contro di noi.
Wells scrisse il romanzo nel corso dell’ultimo decennio dell’800, quando l’Impero britannico era al massimo del suo fulgore ove, il benessere e il potere erano misurati in termini di acri di
terra, tonnellate di ferro e/o carbone e capi di bestiame posseduti.
Gli uomini più ricchi costruivano ferrovie e possedevano navi, erano proprietari di miniere di carbone, oro o rame e acquistavano pascoli sconfinati.
In breve, ai tempi della Regina Vittoria benessere significava “possedere cose”: era naturale pertanto, pensare che anche una civiltà aliena tenesse in gran considerazione il possesso di terreni e miniere e che, facesse dei piani per viaggiare nello spazio alla ricerca di nuove risorse una volta che il proprio pianeta avesse esaurito le sue.
Ecco qual'era il motore principale che spingeva i marziani di Wells.
Neanche un secolo dopo, tuttavia, l’economia globale è cambiata tanto da renderla irriconoscibile: negli anni Novanta del XX secolo Bill Gates era il nuovo Rockefeller e aveva fatto i soldi non dalle “cose” ma da bit di informazione; Microsoft aveva più potere finanziario della maggior parte delle nazioni.
Con l’economia dell’età dell’informazione arrivò l’età dell’informazione di SETI: è chiaro che gli alieni non sarebbero così arretrati e rapaci da perlustrare la galassia in cerca di ferro, o ancor meno oro e diamanti. Una comunità aliena progredita darebbe valore all’informazione: questa sarebbe la loro moneta di scambio, la loro fonte di benessere.
Informazione e conoscenza (incentivi sicuramente più nobili) sarebbero alla base di tutte le attività aliene: la sete di informazione li potrebbe spingere a inviare sonde non per rubare materiali, bensì, per esplorare, osservare e misurare; per compilare una banca dati, una vera e propria enciclopedia galattica. Oggigiorno tutto questo sembra piuttosto ragionevole, ma mi chiedo che fine farà la tesi dell’informazione nel 2090 quando l’economia potrebbe ruotare attorno a qualcosa che nemmeno abbiamo ancora immaginato, figurarsi già inventato. Se le priorità degli uomini possono cambiare in modo tanto radicale nel giro di un secolo, quali speranze abbiamo di poter indovinare le priorità di una civiltà la cui economia può essersi sviluppata per un milione di anni se non di più?
Le stesse critiche generali possono essere mosse alla maggior parte delle teorie su come apparirebbe una civiltà aliena e come si comporterebbero i suoi membri.
É vero che la storia della civiltà umana ci dà degli indizi e che alcuni principi generali potrebbero applicarsi a tutte le forme di vita intelligente.
Il problema è che abbiamo un campione unico di vita, un solo campione di intelligenza progredita e un solo campione di alta tecnologia.
É oltremodo difficile separare le caratteristiche che potrebbero essere proprie del nostro pianeta da ogni principio che regola la comparsa della vita e dell’intelligenza nell’universo.
In queste circostanze, quando si cerca di indovinare qualcosa su ET, c’è la tentazione inevitabile di ricadere in un’analogia con gli uomini.
E questa è quasi sicuramente fallace: chiederci cosa faremmo noi è in gran parte irrilevante.
Il provincialismo e la strettezza di vedute inerenti alle ricerche SETI tradizionali non sono sfuggite a Frank Drake: «i nostri segnali di oggi sono molto diversi da quelli di quarant’anni fa e che allora pensavamo fossero modelli perfetti di quello che poteva arrivare da altri mondi in qualsiasi stato di progresso tecnologico» ha scritto Drake.
«Ci sbagliavamo. Se la tecnologia può cambiare così tanto in quarant’anni, quanto potrebbe cambiare in migliaia, o addirittura in milioni di anni?»
Ecco il problema riassunto in 2 parole.
Questo chiaro riconoscimento da parte del fondatore del SETI classico, tuttavia, deve ancora tradursi in approcci del tutto nuovi sul fronte della ricerca.
Secondo me la strada da percorrere consiste nello smettere di vedere le motivazioni e le attività degli alieni attraverso gli occhi umani; pensare a SETI, pensare alla ricerca di vita intelligente extraterrestre, ci richiede di abbandonare tutti i nostri preconcetti riguardo la natura della vita, della mente, della civilizzazione, della tecnologia e del destino comune.
In breve, pensare a SETI significa pensare l’impensabile.
Tutto molto bello… ma è davvero scienza?
Anche se oggi la comunità scientifica, nel suo complesso è abbastanza a suo agio per quanto riguarda il progetto SETI, alcuni non addetti ai lavori fanno fatica a inquadrarlo nel panorama
scientifico. La gente vuole sapere perché vada bene cercare gli alieni ma non i fantasmi e perché i messaggi provenienti dalle stelle lontane siano scientificamente accettabili ma non vale lo
stesso per quelli dei morti.
Dov’è situata la linea che separa la scienza dalla pseudoscienza?
É un punto molto importante ma altrettanto labile, che arriva dritto al cuore del metodo scientifico; ed è impossibile capire come funziona SETI senza spiegare questa separazione.
Così eccola qui.
Secondo Carl Sagan dichiarazioni straordinarie richiedono prove straordinarie.
Questa considerazione venne fatta a proposito delle storie sugli UFO (di cui parlerò ancora alla fine di questo capitolo), ma si applica in modo abbastanza generale.
Sagan stava esprimendo in termini colloquiali ciò che è noto come regola di Bayes per l’inferenza, basata sulla valutazione statistica dell’evidenza.
Thomas Bayes, un religioso inglese vissuto nel XVIII secolo, comprese che il peso attribuito all’evidenza dipende da quanto plausibile si valuti essere l’ipotesi su cui si basa (la cosiddetta probabilità a priori); cerchiamo di capire meglio con un esempio tratto dalla vita quotidiana.
Mi sveglio alle 6.00 del mattino e trovo sullo zerbino davanti alla porta d’ingresso una bottiglia di latte: cosa concludo? Ci sono 2 possibilità:
La regola di Bayes applicata alla scienza e alla pseudoscienza ci aiuta ad assegnare fattori di credibilità ad asserzioni in competizione tra loro.
É famosa la frase che pronunciò Thomas Jefferson quando ascoltò il resoconto di un testimone oculare di una pioggia di meteoriti:
«Crederei più facilmente a 2 professori yankee che mentono piuttosto che credere al fatto che ci sono sassi che cascano dal cielo».
Come molti intellettuali del XIX secolo, Jefferson non prendeva sul serio i racconti di piogge di meteoriti, sulla base del fatto che la probabilità a priori che ci siano sassi nel cielo è bassa, mentre non lo è altrettanto la probabilità a priori che un professorucolo si inventi una storia per diventare famoso. Oggi sappiamo che il sistema solare abbonda di grossi sassi, residui dei tempi in cui si è formato, cosicché, la probabilità a priori che assegneremmo adesso al racconto di una pioggia di meteoriti sarebbe molto maggiore.
Dovremmo quindi essere inclini a prendere questi racconti sul serio, anche se una certa cautela ci vuole sempre: un mio amico geologo ha compiuto indagini su diversi racconti di piogge di meteoriti che in molti casi si sono rivelati interpretazioni sbagliate.
Una lamentela frequente che ricevo dai miei amici non scienziati è che la fisica contemporanea parli di cose che fanno girare la testa, come le extra dimensioni (una materia oscura che non si è mai riusciti a vedere), stringhe invisibili, universi paralleli, buchi neri che evaporano, ponti di Einstein-Rosen eccetera, nonostante la maggior parte di queste ipotesi non abbia molte prove sperimentali oppure osservative (se mai ne hanno una) a supporto della propria esistenza. Eppure fenomeni come la telepatia e la precognizione sono sperimentati di persona da migliaia di persone e gli scienziati continuano a rifiutarle e a considerarle delle sciocchezze. Non stanno forse usando 2 pesi e 2 misure?
Una volta sono stato sfidato: «come puoi negare l’esistenza dei fantasmi quando accetti quella dei neutrini che sono molto più elusivi e non sono mai stati visti da nessuno?»
(per inciso, i neutrini sono particelle subatomiche molto sfuggenti che passano attraverso la maggior parte della materia solida e questo li rende molto difficili da rilevare).
La risposta breve alla lamentela precedente è: “grazie alla regola di Bayes”.
Per quanto riguarda la fisica moderna, queste strane entità come la materia oscura o i neutrini non sono proposte come congetture isolate, ma fanno parte di un corpus molto grande di teorie piuttosto dettagliate che ne prevedono l’esistenza.
Sono legate a concetti fisici familiari e sopravvissuti a molte prove tramite uno schema matematico coerente che le contiene: hanno, in altri termini, un posto preciso in una teoria ben compresa. Ne consegue che la loro probabilità a priori è alta.
Il lavoro di un fisico sperimentale consiste nel testare una teoria: se costruiamo un esperimento che faccia un’accurata misura di questa e quell’altra quantità, il valore preciso della quale è già stato accuratamente previsto in anticipo, il livello di evidenza richiesto per credere che suddetta entità sia reale è molto più basso di quello che richiederemmo se qualcuno trovasse questa quantità per caso, in assenza di qualsivoglia inquadramento teorico. Per quanto riguarda il paranormale, non è ovvio che la telepatia sia qualcosa di assurdo, ma avrei bisogno di un sacco di prove per credere alla sua esistenza dal momento che non esiste alcuna teoria pertinente e di certo, nessun modello matematico che predica come funzioni o come varierebbe in diverse circostanze.
Di conseguenza, assegno alla telepatia una priorità a priori molto bassa, anche se diversa da zero. Se qualcuno arrivasse con un possibile meccanismo di spiegazione della telepatia, supportato da un modello matematico fatto come si deve che la leghi al resto della fisica e, se la teoria prevedesse risultati specifici (per esempio, che il “potere telepatico” decresce in un certo modo ben definito col crescere della distanza e che è 2 volte più forte tra soggetti dello stesso sesso che tra soggetti di 2 sessi diversi) mi siederei e ne prenderei nota e se le prove sperimentali confermassero le previsioni mi convincerei con una certa facilità.
Purtroppo però, non intravedo all’orizzonte alcuna teoria di questo tipo e resto estremamente scettico a riguardo della telepatia nonostante le molte storie sorprendenti che mi sono capitate di leggere. Ritornando a SETI, come si inserisce nel duello “scienza contro pseudoscienza”? Eccoci arrivati al cuore del problema di tutta l’impresa:
quale probabilità a priori dovremmo assegnare all’esistenza di una civiltà extraterrestre in grado di comunicare?
Nessuno lo sa. Se avete già buoni motivi per credere che là fuori esista ET e un’idea definita sulla natura del segnale, allora siete, per così dire, ben predisposti all’esistenza di una prova e facili da convincere. Ma se pensate che la semplice idea di una civiltà aliena sia assurda, avrete bisogno di prove davvero formidabili.
Nel Capitolo 4 parlerò del perché le civiltà aliene progredite possano essere o molto comuni oppure estremamente rare: una posizione intermedia in cui ce ne siano un po’ qui e un po’ là è intrinsecamente improbabile. In questo modo, quelli che trovano che l’idea in sé di una civiltà aliena sia un’ipotesi astrusa e ingiustificata, situano la ricerca di extraterrestri intelligenti nel regno della pseudoscienza, mentre quanti trovano la stessa idea plausibile la considerano scienza “vera”. Voi lettori dovete decidere da soli.
Ciò che non è messo in discussione, tuttavia, è che il metodo di SETI sia scientifico: la ricerca è condotta con tecnologie dell’ultima generazione, ci lavorano scienziati che hanno studiato nelle migliori scuole utilizzando tecniche di ricerca e di analisi rigorose ove i risultati sono sottoposti al solito processo della peer-review ( indica una valutazione critica che un lavoro o una pubblicazione riceve da parte di specialisti aventi competenze analoghe a quelle di chi ha prodotto l'opera).
I gruppi di ricerca stanno facendo scienza di Qualità, su questo non c’è alcun dubbio; ma stanno forse andando a caccia di una chimera? Per scoprirlo, dovrete continuare a leggere.
❖ Breve storia degli alieni
Le congetture su esseri alieni non ebbero inizio con i radiotelescopi: 2000 anni fa il profeta Ezechiele stava camminando lungo le rive del fiume Chebar in Caldea, quando vide un vento tempestoso
proveniente da nord, da cui emergevano 4 strane creature, ognuna superficialmente «di sembianza umana».
Le creature erano accompagnate da 4 ruote volanti che scintillavano come ottone brunito, con «occhi» sui cerchioni. Alla fine le creature e le ruote «si sollevarono da Terra» e volarono via.
Nel libro di Ezechiele troviamo una descrizione cristallina del misterioso e potente dispositivo volante:
"Quando guardai le creature viventi, vidi una ruota sul terreno accanto a ogni creatura con le sue 4 facce. La lavorazione delle ruote assomigliava al bagliore di berillo e tutti e 4
avevano la stessa somiglianza. La loro lavorazione sembrava una ruota all’interno di una ruota.
Mentre si muovevano, andarono in una delle 4 direzioni, senza ruotare mentre si muovevano.
I loro bordi erano alti e meravigliosi e tutti e 4 i cerchi erano pieni di occhi tutt’intorno.
Mentre le creature viventi si muovevano, le ruote si muovevano accanto a loro e quando le creature si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano.
Ovunque andasse lo spirito, andavano e le ruote si alzavano al loro fianco, perché lo spirito degli esseri viventi era nelle ruote. Quando le creature si muovevano, le ruote si muovevano; quando le creature si fermarono, le ruote rimasero immobili; e quando le creature si alzavano da terra, le ruote si alzavano al loro fianco, perché lo spirito degli esseri viventi era nelle ruote. Sparsi sopra le teste delle creature viventi era la forma su una distesa impressionante, scintillante come il cristallo".
Questo famoso racconto biblico è ovviamente, una storia inventata, forse, il resoconto di un sogno o di una visione, o forse, soltanto un modo colorito di trasmettere un messaggio di tipo religioso. Non dovrebbe essere considerato come un fatto storico e forse, non è mai stato inteso come tale. Il suo valore risiede nel fatto che ci rivela, attraverso la lente della storia, la mentalità di una cultura da tempo scomparsa.
Gli israeliti, così come molti dei loro contemporanei, credevano fermamente che l’umanità fosse soltanto una delle tante forme di vita presenti nell’universo.
Nella maggior parte delle culture antiche dèi, angeli, spiriti e demoni erano considerati reali: si riteneva che molti di questi esseri non umani vivessero da qualche parte al di là del cielo.
Tutti i miti cosmogonici tradizionali si riferiscono a uno o più agenti estremamente potenti che crearono il cosmo e che di tanto in tanto tornano a visitare la Terra.
L’idea che gli esseri umani condividano l’universo con altre creature non era soltanto il prodotto di una mitologia religiosa, ma già nel V secolo avanti Cristo era anche oggetto di
argomentazioni ragionate. Il filosofo greco Democrito (460-370 a.C.) fu l’architetto della teoria atomica della materia, secondo la quale l’universo consiste per intero di minuscole particelle
indistruttibili (gli atomi) che si muovono nel vuoto.
Nello schema di Democrito tutte le forme di materia sono costituite di diverse combinazioni di atomi e tutti i cambiamenti non sono altro che il frutto del loro riposizionamento.
Democrito postulò che se la natura è uniforme e se gli atomi possono associarsi in combinazioni particolari per costituire la Terra, a sua volta popolata da piante e animali, allora possono disporsi in modo analogo anche in altre parti del cosmo.
Pertanto concluse:
I mondi sono infiniti e diversi per grandezza, cosicché in alcuni non esistono né Sole
né Luna, in altri ve ne sono di più grandi che nel nostro cosmo e in altri ancora ce ne sono più numerosi […] I mondi si corrompono nel
collasso di uno contro l’altro.
Alcuni mondi non hanno animali, piante e perfino umidità.
L’argomento di base di Democrito fu ripreso vividamente dal poeta latino Tito Lucrezio Caro (99-55 a.C.) nel suo libro pregno d’atmosfera De Rerum Natura:
E ora se il numero degli atomi è così sterminato che un’intera età dei viventi non basterebbe a contarli e persiste la medesima forza e natura che possa congiungere gli atomi dovunque nella
stessa maniera in cui si congiunsero qui è necessario per te riconoscere che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri e diverse razze di uomini e specie di fiere.
La nascita dell’astronomia, invece di attenuare le congetture su esseri extraterrestri, le nutrì ancora di più. Nel Medioevo il modello copernicano del sistema solare mise il Sole al centro e
descrisse i pianeti non soltanto come puntini luminosi erranti, ma come altri mondi; questa trasformazione incoraggiò idee fantasiose sulla vita presente in questi corpi celesti.
Nel suo libro Somnium (“il sogno”) l’astronomo Giovanni Keplero si spinse fino a descrivere una popolazione lunare di creature rettiliformi dotati di una certa intelligenza, che chiamò subvolvani o privolvani, a seconda della faccia della Luna su cui risiedevano.
Keplero aggiunse, successivamente, che la «nostra» Luna «rappresenta per noi, sulla Terra (…) quello che rappresentano per Giove quelle 4 lunule» e che da questa conclusione «deduciamo che con il più alto grado di probabilità Giove è abitato».
Keplero non era certo l’unico impegnato in queste ipotesi fantasiose.
L’astronomo olandese Christiaan Huygens scrisse un intero trattato chiamato Cosmothereos, pubblicato nella sua forma definitiva nel 1698, in cui cercò di persuadere i lettori che gli altri pianeti fossero abitati.
Per tutti i 300 anni successivi le osservazioni astronomiche migliorarono sempre più e, i possibili candidati al possesso di una forma di vita intelligente nel sistema solare diminuirono. Al volgere del XX secolo c’era un unico pianeta ancora della partita: si trattava di Marte. Quando studiavo alle scuole superiori c’era una credenza popolare, secondo la quale, il pianeta rosso potesse essere abitato: continuava ad essere il pianeta preferito per le storie di fantascienza e la parola marziano era quasi sinonimo di alieno.
Marte non è certo il peggior candidato come luogo che possa ospitare la vita: è chiaramente più piccolo della Terra, quindi ha una gravità minore ed è lontano dal Sole, quindi è freddo.
D’altro canto ha un’atmosfera (per quanto sottile) e la temperatura di superficie può superare il punto di congelamento dell’acqua. A metà del XIX secolo i telescopi erano abbastanza grandi da
rivelare molte delle caratteristiche della superficie: gli astronomi videro calotte polari crescere e restringersi e cambiamenti stagionali nei colori che potevano indicare la presenza di
vegetazione.
Nel 1858 Angelo Secchi, monaco gesuita italiano, cominciò a mappare Marte e chiamò alcuni degli elementi vagamente lineari "canali", vent’anni dopo il suo compatriota Giovanni Schiaparelli
disegnò delle mappe migliori e continuò a usare il termine canali.
Il soprannome venne liberamente tradotto in inglese con canal, sostantivo che connota qualcosa di artificiale. I canali di Marte catturarono l’immaginazione di un ricco scrittore e viaggiatore americano, Percival Lowell, che costruì a Flagstaff, in Arizona, un osservatorio dedicato allo studio di Marte e alla ricerca di prove dell’esistenza della vita.
Nel 1900 Lowell era convinto di potervi distinguere segni non soltanto di vita, ma di vita intelligente. Cominciò a fare disegni elaborati che mostravano intricati reticoli di linee, che lui prese per acquedotti costruiti da una civiltà molto progredita per convogliare l’acqua sciolta delle calotte polari fino alle secche regioni equatoriali.
All’incirca a quel tempo H.G. Wells scrisse il suo capolavoro, La guerra dei mondi.
Quando Lowell e Wells pubblicarono le proprie opere non era irragionevole credere che Marte potesse ospitare forme di vita intelligente, idea che aleggiò in certi ambienti fino all’alba dell’era
spaziale. Nel 1963, infatti, la NASA inviò a sorvolare Marte una sonda spaziale di nome Mariner: le immagini mostrarono un paesaggio sterile, pieno di crateri, più simile alla Luna che alla
Terra. Le sonde Mariner successive misurarono una pressione atmosferica deludentemente bassa e non trovarono alcuna traccia di ossigeno.
Senza ossigeno non può esserci uno strato di ozono, cosicché, la superficie di Marte è soggetta al bombardamento della radiazione ultravioletta proveniente dal Sole.
Un freddo pungente, un’atmosfera tenue e una superficie invasa dalla radiazione ultravioletta costituiscono una combinazione piuttosto letale, cosicché, le speranze di trovare vita su Marte cominciarono a spegnersi. É significativo che Mariner non abbia trovato alcuna traccia dei famigerati canali, nonostante abbia fotografato dei sistemi fluviali ormai prosciugati. I canali di Lowell si rivelarono il frutto della sua fertile immaginazione; più il simbolo del desiderio di credere in qualcosa che un dato scientifico.
É una lezione istruttiva, importante da tenere a mente quando si parla di ricerca di vita intelligente extraterrestre.
Oggi possiamo essere sicuri del fatto che non c’è alcuna probabilità di trovare forme di vita intelligente in un altro pianeta del nostro sistema solare.
SETI, tuttavia, indaga pianeti extrasolari.
Quando Drake diede l’avvio al progetto Ozma fece una sorta di atto di fede, perché a quei tempi gli astronomi non potevano essere sicuri che esistessero altri pianeti fuori dal sistema solare; sono stati identificati soltanto in tempi recenti.
Al giorno d’oggi abbiamo trovato circa 400 pianeti che orbitano intorno a stelle situate nelle immediate vicinanze della nostra galassia. I metodi che hanno portato al maggior numero di scoperte sono 2:
Il motivo per cui è così difficile catturare un’immagine è che la luce diffusa dalla stella è tale da inghiottire la debole luce emanata dal pianeta; è come cercare di individuare una lucciola in prossimità di un proiettore luminoso. Dal momento che, sia il metodo Doppler sia il metodo dei transiti funzionano al meglio per oggetti decisamente massivi che orbitano molto vicini alla loro stella (chiamati “Giovi caldi” dalla stampa popolare), pochi dei pianeti identificati sinora sono simili alla Terra.
Recentemente sono state catalogate alcune “super Terre”: pianeti densi e relativamente piccoli, ma dotati di masse che sono molte volte quella del nostro pianeta.
Gli astronomi, ciononostante, in generale concordano sul fatto che là fuori abbondino pianeti delle dimensioni della Terra e, non vedono l’ora di poter disporre di sistemi ottici migliori che un giorno ci forniranno immagini dettagliate di queste “altre Terre”.
Nel frattempo, un satellite di nome Kepler, lanciato nel Marzo 2009, per 3 anni monitorerà 100.000 stelle alla ricerca di transiti; Kepler ha la sensibilità di rilevare, anche se non anche quella di fotografare, pianeti abbastanza piccoli da essere paragonabili alla Terra.
Dal punto di vista della possibilità di ospitare la vita non è sufficiente che un pianeta abbia più o meno lo stesso raggio della Terra: essere un pianeta “tipo Terra” richiede numerose altre caratteristiche che si ritiene siano essenziali per la biologia.
Per esempio, deve possedere un’atmosfera ragionevolmente spessa; ed è probabile che allo stesso tempo sia necessario un interno caldo che generi un campo magnetico in grado di deviare le
pericolose radiazioni cosmiche e, di guidare la tettonica a zolle (i movimenti della crosta continentale), fatto importante per riciclare gli elementi chimici nell’ambiente di superficie. Inoltre
non c’è dubbio sul fatto che l’elemento davvero fondamentale per la vita, così come noi la conosciamo, sia l’acqua liquida: nessuna forma di vita nota può esistere in sua assenza. Queste
condizioni hanno portato al concetto di zona abitabile: una regione dello spazio attorno a una stella in cui la superficie di un pianeta potrebbe sopportare la presenza di acqua allo stato
liquido. Nel caso del sistema solare la zona abitabile si estende a partire da un punto da qualche parte tra Venere e la Terra (Venere è
di gran lunga troppo calda perché possa esistervi acqua liquida) e arriva fino a Marte (che è per la maggior parte, anche se non del tutto, troppo freddo).
Per essere “in zona”, l’ideale sarebbe un pianeta tipo Terra che si trovasse in un’orbita tipo quella della Terra attorno a una stella tipo il Sole… il modo tradizionale di considerare le zone
abitabili, tuttavia è oggi ritenuto troppo restrittivo e ha bisogno di essere allargato per potere includere alcune interessanti possibilità aggiuntive.
Una stella fredda come una nana rossa, per esempio, potrebbe possedere una zona abitabile molto stretta e a piccolo raggio. Nel 2007 attorno alla nana rossa Gliese 581c fu scoperto un pianeta che potrebbe ospitare la vita: si tratta di una super Terra, in orbita ad appena 11 milioni di chilometri dalla sua stella.
Ora, dato che la Terra dista dal Sole 150.000.000 di Km, tale distanza risulta essere abbastanza piccola affinché l’acqua vi si trovi allo stato liquido, anche se la stella è poco luminosa. Per quanto riguarda l’esistenza di forme di vita progredite, tuttavia, un pianeta così vicino alla propria stella è di certo bloccato in fase con la sua orbita, presentando dunque un lato sempre rivolto verso la stella e l’altro sempre in ombra, così come nel caso della Luna rispetto alla Terra (dalla Terra non possiamo vedere l’altra faccia della Luna).
Questa situazione implica che metà del pianeta sia costantemente oppressa dal caldo e l’altra metà permanentemente congelata e ciò non rappresenta la situazione, diciamo, ideale sotto il profilo biologico. Eppure ci sarà una zona Goldilocks (Zona Goldilocks è un modo alternativo di indicare la zona abitabile; il termine deriva dalla favola per bambini Goldilocks and the Three Bears, in italiano Riccioli d’oro e i 3 orsi, ed è usato per descrivere una condizione che non è troppo fredda né troppo calda, né troppo grande né troppo piccola eccetera. (N.d.T.)), sul confine, e là potrebbe essere possibile almeno la nascita di forme di vita primitive. Un ulteriore tipo di zona abitabile sarebbe l’interno di piccoli pianeti o di satelliti ghiacciati: nella periferia più fredda ed esterna del nostro sistema solare Europa, uno dei satelliti di Giove, ha un oceano liquido scaldato dalla forza gravitazionale di Giove tramite riscaldamento mareale sotto la propria crosta di ghiaccio.
Ancora più lontano, il pianeta nano Plutone è oggi noto per essere soltanto uno tra molti corpi ghiacciati presenti nell’universo, alcuni dei quali tanto ricchi di elementi chimici da poter favorire la nascita della vita. I corpi più grandi hanno un calore interno derivante dalla loro formazione che, aggiunto agli effetti riscaldanti della radioattività e dei processi chimici, è sufficiente perché restino liquidi al proprio interno per miliardi di anni.
Altri sistemi planetari conterranno quasi sicuramente corpi celesti simili, con superfici congelate e parti interne piene di acqua allo stato liquido.
Se in questi pianeti ricoperti di ghiaccio dovesse emergere la vita, sarebbe quasi sicuramente allo stadio di microbi; anche se si dovessero evolvere in questi luoghi entità biologicamente più complesse, sul tipo di vita che si verrebbe a creare possiamo soltanto azzardare ipotesi. Quanto impiegherebbero queste creature senzienti confinate da un solido cielo (spesso centinaia di chilometri) nel loro habitat liquido e nel buio più pesto, a scoprire che oltre il tetto in apparenza impenetrabile del loro mondo esiste un vasto universo?
É difficile immaginare che costoro possano “evadere” dalla loro prigione di ghiaccio e lanciare messaggi radio nello spazio.
❖ Per finire: e tutte quelle storie sugli UFO?
Le indagini mostrano che il numero sbalorditivo di quaranta milioni di americani ha visto qualcosa descritto come ufo: ma che cos’è un UFO?
L’acronimo sta per Unidentified Flying Object, “oggetto volante non identificato”; alla lettera, significa che nessuno sa di cosa si tratti.
La stampa però ha trasformato un’accezione negativa (non sappiamo) in una positiva (sappiamo che è… qualcos’altro). Nell’immaginazione comune questo “qualcos’altro” è una navicella spaziale proveniente da un altro mondo.
Così, se qualcuno vede nel cielo qualcosa che non sa identificare, questo qualcosa (così funziona il ragionamento) è candidato ad essere una navicella aliena.
Non c’è bisogno di dire che niente di questo fa colpo sugli scienziati.
Tanto per cominciare, la logica è difettosa: non essere in grado di identificare qualcosa come X non implica che questo qualcosa debba essere Y. Potrebbe essere Z.
Ci sono migliaia di avvistamenti di UFO e la maggior parte di questi può essere spiegata nell’immediato come strani effetti atmosferici, velivoli visti in condizioni inusuali, pianeti brillanti eccetera. É vero che c’è una manciata di casi difficili da spiegare, ma non c’è nessuna linea di demarcazione ovvia che divida quelli che possono essere risolti da quelli che non possono esserlo.
Siamo quindi tentati di concludere che se il 95% degli avvistamenti può essere spiegato senza troppi sforzi, il rimanente 5% potrebbe essere spiegato con altrettanta facilità se soltanto avessimo
abbastanza informazioni a nostra disposizione, perché non c’è nulla che distingua questi casi dagli altri, a parte il fatto che ci lasciano un po’ più perplessi.
Questa è di certo la posizione di molti governi che hanno messo su dei progetti di ricerca sugli UFO. Il governo britannico ha registrato dal 1950 ben 11.000 casi.
Dopo aver per anni minimizzato l’importanza di questo studio, di recente sono stati divulgati numerosi documenti sugli UFO grazie al Freedom of Information Act18.
Nonostante ci siano alcuni casi sconcertanti la conclusione del governo è che, qualsiasi cosa possa essere ciò che resta inspiegato, ciò non indica che ci siano alieni all’opera.
Un portavoce ha concesso che «il ministro della difesa non nega che nel cielo ci siano cose strane» ma d’altra parte «non c’è nessuna prova del fatto che una navicella aliena sia atterrata sul
nostro pianeta».
Da parte sua il governo americano nel 1950 ha lanciato il progetto Blue Book per valutare se gli UFO costituissero una minaccia per
la sicurezza nazionale.
Nel corso di vent’anni sono stati setacciati migliaia di resoconti e, per centinaia tra questi sono state condotte ricerche approfondite. Alla fine di questa analisi mastodontica si chiese al noto fisico atomico Edward Condon di fare una valutazione: il risultante Condon Report concluse che circa il 90% degli avvistamenti poteva essere spiegato in termini di fenomeni normali, mentre il restante 10% non conteneva sufficiente valore scientifico o altri elementi di rilievo che giustificassero la continuazione del progetto Blue Book.
Che infatti, fu debitamente chiuso. Blue Book impiegò, come consulente scientifico, un astronomo: Allen Hynek della Northwestern University dell’Illinois.
Quando ero ricercatore, durante il mio post-dottorato, ho incontrato in molte occasioni il cordiale Dr. Hynek, gran fumatore di pipa e sono anche andato a trovarlo a casa sua nell’Illinois, dove un’intera stanza strabordava di polverosi documenti sugli UFO.
Questo succedeva negli anni Settanta. É stato Hynek a dividere i resoconti in diverse categorie e a coniare il termine oggi familiare di incontri ravvicinati del terzo tipo, divenuto proverbiale dopo che Steven Spielberg l’ha usato come titolo per il suo famoso film (e Spielberg in cambio vi inserì un cameo di Hynek, completo di pipa).
Dopo anni di indagini faticose, Hynek si convinse che «dietro doveva esserci qualcosa», anche se ammise che soltanto una minuscola frazione dei casi conteneva prove di carattere davvero strano. Per un po’ convinse anche me; se non altro, ero preparato ad avere una mente aperta. Nel corso degli anni, tuttavia, riflettendo in modo più approfondito su questi avvistamenti, iniziai a vedere quanto fossero antropocentrici e quanto si portassero dietro tutti i segnali distintivi di una mente umana, piuttosto che aliena.
Questo era vero soprattutto nei casi più complicati, in cui i testimoni affermavano di aver incontrato esseri alieni “in carne e ossa”. Quasi sempre, questi “ufonauti” avevano forme umanoidi (a volte erano nani o giganti), e spesso le descrizioni davano l’impressione che stessero partecipando al casting per un film di Hollywood.
Più avanti discuterò quanto possa essere plausibile che l’aspetto fisico dei viaggiatori spaziali possa somigliare così tanto a quello degli uomini.
Un altro elemento rivelatore era la banalità dei presunti piani d’azione alieni, che sembravano consistere nel rovistare qua e là nei campi e nelle radure, dando la caccia a mucche, velivoli o automobili come adolescenti annoiati e rapire uomini per esperimenti che ricordavano quelli dei nazisti. Non esattamente quello che ci si aspetterebbe da una super mente cosmica. Di tanto in tanto alcuni casi li ho risolti io stesso.
Alcuni erano facili: uno consisteva in un filmato che mostrava una luce brillante che emanava dal terreno in direzione orientale, proprio prima dell’alba e che nell’arco di circa mezzora compariva gradualmente alla vista.
Come ogni astronomo amatoriale saprebbe subito riconoscere, si trattava di Venere, che si presenta come “stella del mattino” palesandosi proprio prima del sorgere del Sole.
Un altro filmato mostrava un insieme di luci stagliate contro un cielo nuvoloso, ognuna delle quali cadeva dal cielo lentamente e con moto un poco oscillante, fino a spegnersi.
Il filmato era stato girato da una coppia di campeggiatori che si trovava nel sud dell’Inghilterra in prossimità di Stonehenge, luogo trasudante misticismo e intriso del folclore dei tempi antichi. Se vi dovesse capitare di vedere un UFO, non esiste posto migliore.
Il filmato era così sconvolgente che Granada Television lo mostrò nel notiziario delle 18.00 e organizzò un dibattito a seguire. Fui invitato a partecipare: raggiunsi lo studio con un po’ di anticipo e, com’è ovvio, chiesi di poter vedere il filmato in anteprima.
Nel momento in cui lo vidi seppi di cosa si trattava: erano razzi di segnalazione militari.
Fu, per quanto mi riguarda, un vero e proprio colpo di fortuna, perché io stesso avevo visto dal vivo un evento molto simile poco tempo prima.
Chiesi all’operatore di ingrandire le immagini e, come mi aspettavo, vidi le tracce di fumo.
I razzi erano stati lanciati da sopra le basi delle nuvole e comparivano agganciati a piccoli paracadute che oscillavano con il vento, cosicché, comparivano uno a uno da dietro le nuvole scendendo lentamente prima di spegnersi.
Una volta fornita una spiegazione, le luci non erano più così misteriose come prima.
Il fatto che Stonehenge sia situata in prossimità di un campo di allenamento militare non era parso rilevante a nessuno. Una volta spiegata la storia, Granada TV cercò, senza successo, di togliere la notizia dal telegiornale; anche il dibattito andò in onda lo stesso, cosicché chiesi ai testimoni di descrivere la scena.
Sembrava che avessero osservato le strane luci nella stessa porzione di cielo per diversi giorni di seguito prima di filmarli. Volevo sapere perché non si fossero avvicinati di più dal momento che il fenomeno era così prevedibile.
«Abbiamo provato» risposero «ma ci è stato impedito di farlo dall’esercito, dal momento che stavano facendo delle esercitazioni proprio in quell’area».
A questo punto potreste pensare che, stando così le cose, la mia spiegazione in termini di razzi di segnalazione militari avesse convinto tutti, ma vi sbagliereste: negli occhi della coppia e, forse anche in quelli della maggior parte del pubblico che stava guardando il programma, gli oggetti del filmato erano davvero degli UFO, che però sembravano razzi di segnalazione. Con questo modo di ragionare non c’è proprio niente da fare.
Com’è ovvio si può dire lo stesso di tutte le teorie di cospirazione: molte persone sono convinte che “il governo” conosca “la verità” sugli UFO ma che la tenga nascosta per ragioni malvagie.
Questo sarebbe anche plausibile, dato che i governi hanno l’abitudine di tenere nascoste le cose. Ho chiesto il parere di Seth Shostak, del SETI Institute in California, che ha studiato
dettagliatamente il mondo degli UFO:
«Sarebbero davvero così bravi a tenere nascosta una cosa tanto grossa?» ha risposto scettico Shostak. «Non dimentichiamo che stiamo parlando dello stesso governo che gestisce gli uffici postali». Ha aggiunto, inoltre, che gli UFO non sono un’esclusiva degli Stati Uniti e gli avvistamenti avvengono in tutto il mondo.
Che dire dei governi del Belgio o, mettiamo, del Botswana?
Potremmo aspettarci che almeno uno di questi, di tanto in tanto, si faccia sfuggire qualcosa.
Niente di tutto ciò è riuscito a sferrare un colpo definitivo al “dilemma” degli UFO; non sarei sorpreso se una piccola parte dei casi riguardasse fenomeni atmosferici o psicologici nuovi o poco
noti. Qualsiasi cosa si celi dietro questo ostinato residuo di casi difficili da spiegare, non vedo nessuna ragione per attribuirli alle attività di esseri alieni in visita sul nostro pianeta a
bordo di dischi volanti. Le storie sugli UFO, così come le storie sui fantasmi, sono divertenti da leggere, ma non possono essere prese sul serio come prove dell’esistenza di esseri
extraterrestri. Nonostante questo però, contribuiscono a perseguire uno scopo utile, in quanto forniscono uno spaccato del modo di immaginare gli alieni e le tecnologie aliene tipico della mente
umana. Ciò che colpisce in questi resoconti non è il loro carattere strano e il sapore vagamente ultraterreno, bensì, quanto siano legati all’esperienza umana: ci aspetteremmo che gli
extraterrestri fossero qualcosa di un po’ più fuori dal comune che umanoidi al comando dell’equivalente di un bombardiere mimetico con il motore truccato.
Come mostrerò, SETI ci costringe a compiere salti d’immaginazione molto più grandi: il biologo inglese J.B.S. Haldane è noto per aver detto che:
«l’universo non soltanto è più bizzarro di quel che supponiamo, ma molto più bizzarro di quello che siamo in grado di supporre».
L’approfondita presa in esame dell’esistenza di un’intelligenza aliena e di segni distintivi di una tecnologia sviluppatasi nel corso di molti milioni di anni necessita che ci liberiamo della maggior parte del nostro bagaglio mentale.
Dimentichiamo gli omini verdi, i nani grigi, i dischi volanti con piccoli oblò, i cerchi nel grano, le palle luminose e i terrificanti rapimenti notturni: entrare in SETI significa andare oltre gli UFO, oltre gli stereotipi delle leggende umane, oltre il folclore, le favole e la fantascienza.
Persino Oz, il regno immaginario che ha dato il nome al progetto Ozma di Frank Drake, non è «abbastanza bizzarro», per parafrasare Haldane. Per comprendere a pieno il significato dello strano silenzio in cui siamo immersi «dobbiamo imbarcarci in un viaggio nel vero ignoto».
Paul Davies, Uno strano silenzio